giovedì 5 giugno 2008

giovedì 8 maggio 2008

VIAGGIO NELLA POLITICA CON FANTASIA

di Giorgio Manganelli

Davanti al palazzo dei congressi fischiano e tumultuano innocui ragazzoni che vogliono un po’ d’attenzione dei delegati; grandi cartelli gridano l’affanno di una cooperativa Auspicio, e i giovanotti cercano di riassumere una intricata storia di infelicità edilizie. “Delegato all’assemblea DC, non gettarmi via: leggimi e cerca di capire!”.
Il picchetto di protesta ha un che di folkloristico, di popolare, e dà l’impressione che sia uno strumento involontario della redenzione della DC come partito “popolare”. Sanno di “natale dei poveri”, mandorlato e mostarda.
I democristiani mi fanno entrare nel palazzo – li guardo con curiosità, non ne avevo mai visti tanti - con un garbo mite ed ingenuo, un tratto assai alla mano, più naturale che volutamente cortese.
La sala enorme è semivuota, Gui ha finito di parlare da poco, e le sedie appaiono assolutamente sfinite; una poltroncina singhiozza in silenzio, consolata da tenere e pensose donne delle pulizie.
Tolgono le carte, lavano per terra, e la sala non proprio sorride ma un poco si racconsola. Sul banco dei potenti si allineano i birilli verdastri delle acque minerali – “non gasate, prego” – a scandire gli “spazi deputati” a coloro che già le sedie si dispongono ad attendere. Un poco alla volta, alcuni entrano, crecano la sedia con la quale hanno stabilito una sorta di complicità. Li guardo con interesse, quegli esseri calmi, un poco umili che credono alla fine del mondo, e insieme vogliono discutere sul modo assennato e onesto per maneggiare il mondo nelle more della sua scomparsa. Può un’anima immortale essere competente in caduchi trionfi ed effimere letizie?
Davanti a coloro che, via via più numerosi, entrano nella sala sta la grande scritta: “Per la società nuova un grande partito di popolo”. Stilisticamente e folosoficamente non mi sembra gran che, ma forse trascuro l’intima mozione degli affetti. D’altra parte nel “documento di base” avevo letto che qualcuno vuol costruire una società “a misura d’uomo” e ne avevo tratto una saggia tristezza. Guardo i vestiti dei delegati sempre più numerosi; una dignitosa sciatteria da madri di famiglia, scattanti completi di giovani praticanti di studi legali, ansiosi di sposarsi; uomini di mezza età, con aria che non so perché direi padana, domestica, ragionevolmente prolifica. Forse il tratto, l’aroma della famiglia è peculiare di questo convegno, una solidarietà parentale, più che strettamente ideologica. Ammiro qualche barbetta arguta, da scapolo che fa piangere la fidanzata.
Arrivano i primi importanti, in testa Taviani. Comincia una musica classica, o è Beethoven o è Wagner, o tutt’e due con un Verdi giovane. Niente inni di partito. Si annunciano le regole per gli interventi: quindici minuti, estensibili a venti. Un macchinoso sistema di luci avvertirà il parlante dell’abisso imminente. Quattro luci, poi via i microfoni. Sono dei duri.
Arriva Andreotti, la mano sinistra in tasca, un po’ alla Napoleone. Andreotti non sale sul palco, si siede in platea, chiacchiera con Forlani. Intanto cominciano gli interventi. Il primo è irrequieto, nervoso, aiutato da microfoni che fanno pasta delle sue indignazioni. Il suo narcisismo non è incoraggiato. I Grandi chiacchierano, o meditano.
Altri entrano: Evangelisti, passo lento e duro, Bassetti, elegante, un concettoso (fisicamente) Ardigò. Ma io sono dominato da una smania oscura, malsana di vedere Piccoli, la pietra filosofale della DC; macché, lui non viene. Il secondo intervento pare garbato e liscio, ma eccoti “un’ampia convergenza di opinioni”, “inerisce”, “nella misura in cui”.
Vedo una poltrona che si percuote lo schienale con i braccioli: pura disperazione. Poi una voce femminile, acre e minatoria, domina la sala distratta. Non mi stupirei che parlasse della fine del mondo. Sembra informata. Meglio uscire.

Corriere della Sera, 26 novembre 1981.

martedì 6 maggio 2008

PUSHER

In un momento dialettico dello spirito, ho dato risposta a me stesso circa una questione cruciale: precisamente questa: come mai la fede politica ed il suo nucleo morale non si riflettano pienamente nella pratica quotidiana; come mai, cioè, essi non rappresentino la traccia dominante in senso etico dei nostri vissuti; e per quale ragione gente che si proclama liberale non comprenda, né rispetti la differenza; o perché mai chi si dice di sinistra arrivi a piazzartelo in culo con tanta leggerezza, rimettendosi in tasca le belle parole spese un quarto d'ora prima circa l'ecumenismo umanitario, il pacifismo globale, etc. La soluzione è: discutendo di metapolitiche (massimi sistemi ideologici) cadiamo sovente vittima d'una sequela di autoallucinazioni, rappresentazioni immaginarie, stati autoindotti di degenerazione psicotropa, come veri e propri pusher di noi stessi: chi è liberale si autorappresenta paladino dell'uomo generico e delle sue libertà personali; chi sta a sinistra si millanta globalista, capopolo e difensore degli oppressi, laicizzando i principi evangelici dell'eguaglianza e dell'amore fraterno. Ma poi, alla prova dei fatti, il confronto tra Inclinazione Sensibile e Dovere Morale è incassato dalla formazione di casa: due a zero secco e senza favori arbitrali.

bETELGEUSE (d'annata)

PENSIERINI SULL'AMORE DOMESTICO

di Giorgio Manganelli

Non dispongo di una famiglia, e ne sento la mancanza. Non ho, ad esempio, una moglie indifesa da percuotere a sangue per motivi di minestra, e bambini da terrorizzare con mirabili malumori cosmici.
I terrori sono educativi. Nella mia infanzia io ho posseduto una famiglia normale - o piuttosto ne sono stato posseduto - vale a dire quel tipo di famiglia che, per vivere, ti fornisce di laurea e di una certa quantità di demenza. In realtà la demenza è il vero titolo di studio che ho ricavato dalla vita domestica, e grazie ad essa ho conquistato rinomanza, cravatte e il diritto di accedere a golosi ristoranti.
Mi dicono che una maggioranza di coloro che sono in istato di cattività familiare ritiene che l'amore sia il fondamento della famiglia; opinione accreditata dal clero, formato esclusivamente da celibi. In verità, se non ci fosse amore, non si proverebbe alcun piacere a percuotere la sposa, far venire gli incubi ai minorenni e indurre nella sposa vagheggiamenti vedovili. L'amor familiare consiste in un complicato ordigno che mescola possesso, diritti, aspettative, consuetudine, distrazioni, prevaricazioni, e taciturni, lenti affrontamenti, "bracci di ferro" che durano una vita.
Nella famiglia nessuno fa ciò che vorrebbe fare, e ciò sarebbe dovuto all'amore, ma inevitabilmente comporta una sorta di vapore di frustrazione, tra profumo e tanfo, che pervade i locali e le anime. Ne deriva un rancore neghittoso e taciturno, un parlar d'altro, una tecnica d'elusione.
A mio avviso l'amore assomiglia ad un voluminoso e greve animale, che giorno per giorno si scompone, scinde e recide; e le gambe si aggrovigliano alle orecchie, respira per forami innaturali, si colloca gli occhi sulla coda. Questo animale conserva, per quanto scomposto e ricomposto, una sorta di opaca razionalità, una funzionalità ostinata e tetra, e sviluppa una sua specifica ferocia, tenera, languida, benevola, generosa, quella appunto da cui con il trascorrere degli anni, germoglia quel titolo di studio insostituibile, che è la demenza dell'infante, demenza che si perfeziona nell'adolescenza, e fiorisce nella piena maturità.
Per poter funzionare, la famiglia ha bisogno di questa sorta di amore, che è fondata su di una serie di astensioni da se stessi che, ben sviluppata, può portare una donna ed un uomo e degli infanti a credere di essere veramente, cioè nella sostanza, mogli e mariti e figli. Inevitabilmente, questa situazione genera o un ignaro furore, o una sorte di allucinazione collettiva; coniugi e figli vivono "come se" fossero una famiglia. Chi volesse dedurre che questa descrizione fonda la famiglia sul sadismo e non sull'amore cadrebbe in un errore terminologico, giacché che il sadismo si fonda a sua volta sull'amore. E tenete presente che l'amore della famiglia si accompagna spesso all'amor di patria.

L'Europeo, 21 settembre 1981

lunedì 5 maggio 2008

QUESTIONI D'ARCHIVIO

Sono contro l'aborto

di Pier Paolo Pasolini

Io sono per gli otto referndum del Partito Radicale, e sarei disposto ad una campagna anche immediata in loro favore. Condivido col Partito Radicale l’ansia della ratificazione, l’ansia ciè del dar corpo formale a realtà esistenti: che è il primo principio della democrazia.
Sono però traumatizzato dalla legalizzazione dell’aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell’omicidio. Nei sogni e nel comportamento quotidiano – cosa comune a tutti gli uomini – io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente. Mi limito a dir questo, perché , a proposito dell’aborto, ho cose più urgenti da dire. Che la vita sia sacra è ovvio: è un principio più forte ancora che ogni principio della democrazia, ed è inutile ripeterlo.
La prima cosa che vorrei invece dire è questa: a proposito dell’aborto, è il primo, e l’unico, caso in cui i radicali e tutti gli abortisti democratici più puri e rigorosi si appellano alla Realpolitik e quindi ricorrono alla prevaricazione “cinica” dei dati di fatto e del buon senso.
Se essi si sono posti sempre, anzitutto, e magari idealmente (com’è giusto), il problema di quali siano i “principi reali” da difendere, questa volta non l’hanno fatto.
Ora, come essi sanno bene, non c’è un solo caso in cui i “principi reali coincidano con quelli che la maggioranza considera propri diritti. Nel contesto democratico, si lotta, certo, per la maggioranza, ossia per l’intero consorzio civile, ma si trova che la maggioranza, nella sua santità, ha sempre torto: perché il suo conformismo è sempre, per propria natura, brutalmente repressivo.
Perché io considero non “reali” i principi su cui i Radicali e in genere i progressisti (conformisticamente) fondano la loro lotta per la legalizzazione dell’aborto?
Per una serie caotica, tumultuosa ed emozionante di ragioni. Io so intanto, come ho detto, che la maggioranza è già tutta, potenzialmente, per la legalizzazione dell’aborto (anche se, magari, nel caso di un nuovo “referendum”, molti voterebbero contro, e la vittoria radicale sarebbe molto meno clamorosa). L’aborto legalizzato è infatti – su questo non c’è dubbio – una enorme comodità per la maggioranza. Soprattutto perché renderebbe ancora più facile il coito – l’accoppiamento eterosessuale – a cui non ci sarebbero più praticamente ostacoli. Ma questa libertà del coito della “coppia” così com’è concepita dalla maggioranza – questa meravigliosa permissività nei suoi riguardi – da chi è stata tacitamente voluta, tacitamente promulgata e tacitamente fatta entrare, in modo ormai irreversibile, nelle abitudini? Dal potere dei consumi, dal nuovo fascismo. Esso si è impadronito delle esigenze di libertà, diciamo così, liberali e progressiste e, facendole sue, le ha vanificate, ha cambiato la loro natura.
Oggi la libertà sessuale della maggioranza è in realtà una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un’ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità di vita del consumatore. Insomma, la falsa liberalizzazione del benessere, ha creato una situazione altrettanto e forse più insana che quella dei tempi della povertà. Infatti: primo: risultato di uan libertà sessuale “regalata” dal potere è una vera e propria generale nevrosi. La facilità ha creato l’ossessione; perché è una facilità “indotta” e imposta, derivante dal fatto che la tolleranza del potere riguarda unicamente l’esigenza sessuale espressa dal conformismo della maggioranza. Protegge unicamente la coppia (non solo, naturalmente, matrimoniale): e la coppia ha finito, dunque, col diventare una condizione parossistica, anziché diventare segno di libertà e felicità (com’era nelle speranze democratiche). Secondo: tutto ciò che sessualmente è “diverso” è invece ignorato e respinto. Con una violenza pari solo a quella nazista dei lager (nessuno ricorda mai, naturalmente, che i sessualmente diversi son finiti là dentro). È vero; a parole, il nuovo potere estende la sua falsa tolleranza anche alle minoranze. Non è magari da escludersi che, primo o poi, alla televisione se ne parli piubblicamente. Del resto le élites sono molto più tolleranti verso le minoranza sessuali che un tempo, e certo sinceramente (anche perché ciò gratifica le loro coscienze). In compenso l’enorme maggioranza (la massa: cinquanta milioni di italiani) è divenuta di una intolleranza così rozza, violenta e infame, come non è certo mai successo nella storia italiana. Si è avuto in questi anni, antropologicamente, un enorme fenomeno di abiura: il popolo italiano, insieme alla povertà, non vuole neanche più ricordare la sua “reale” tolleranza: esso, cioè, non vuole più ricordare i due fenomeni che hanno meglio caratterizzato l’intera sua storia. Quella storia che il nuovo potere vuole finita per sempre. È questa stessa massa (pronta al ricatto, al pestaggio, al linciaggio delle minoranze) che, per decisione del potere, sta ormai passando sopra la vecchia convenzione clerico-fascista ed è disposta ad accettare la legalizzazione dell’aborto e quindi l’abolizione di ogni ostacolo nel rapporto della coppia consacrata.
Ora, tutti, dai Radicali a Fanfani (che stavolta, precedendo abilmente Andreotti, sta gettando le basi di uan sia pur prudentissima abiura teologica, in barba al Vaticano), tutti, dico, quando parlano dell’aborto, omettono di parlare di ciò che logicamente lo precede, cioè il coito.
Omissione estremamante significativa. Il coito – con tutta la permissività del mondo – continua a restare tabù, è chiaro. Ma per quanto riguarda i Radicali la cosa non si spiega certamente col tabù: essa indica invece l’omissione di un sincero, rigoroso e completo esame politico. Infatti il coito è politico. Dunque non si può parlare politicamente in concreto dell’aborto, senza considerare come politico il coito. Non si possono vedere i segni di uan condizione sociale e politica nell’aborto (o nella nascita di nuovi figli) senza vedere gli stessi segni anche nel suo immediato precedente, anzi, “nella sua causa”, cioè nel coito.
Ora il coito di oggi sta diventando, politicamente, molto diverso da quello di ieri. Il contesto politico di oggi è già quello della tolleranza (e quindi il coito è un obbligo sociale) mentre il contesto politico di ieri era la repressività (e quindi il coito, al di fuori del matrimonio, era scandalo). Ecco dunque un primo errore di Realpolitik di compromesso col buon senso, che io ravviso nell’azione dei Radicali e dei progressisti nella loro lotta per la legalizzazione dell’aborto. Essi isolano il problema dell’aborto, coi suoi specifici dati di fatto, e perciò ne danno un’ottica deformata: quella che fa loro comodo (in buonafede, su questo sarebbe folle discutere).
Il secondo errore, più grave, è il seguente. I Radicali e gli altri progressisti che si battono in prima fila per la legalizzazione dell’aborto – dopo averlo isolato dal coito – lo immettono in una problematica strettamente contingente (nella fattispecie, italiana), e addirittura interlocutoria. Lo riducono a un caso di pura praticità, da affrontare appunto con spirito pratico. Ma ciò (come essi sanno bene) è sempre colpevole.
Il contesto in cui bisogna inserire il problema dell’aborto è ben più ampio e va ben oltre l’ideologia dei partiti (che distruggerebbero se stessi se l’accettassero: cfr. Breviario di ecologia di Alfredo Todisco). Il contesto in cui va inserito l’aborto è quello appunto ecologico: è la tragedia demografica, che, in un orizzonte ecologico, si presenta come la più grave minaccia alla sopravvivenza dell’umanità. In tale contesto la figura – etica e legale – dell’aborto cambia forma e natura: e, in un certo senso, può anche esserne giustificata una forma di legalizzazione. Se i legislatori non arrivassero sempre in ritardo, e non fossero cupamente sordi all’immaginazione per restare fedeli al loro buon senso e alla propria astrazione pragmatica, potrebbero risolvere tutto rubricando il reato dell’aborto in quello più vasto dell’eutanasia, privilegiandolo di una particolare serie di “attenuanti” di carattere appunto ecologico. Non per questo esso cesserebbe di essere formalmente un reato e di apparire tale alla coscienza. Ed è questo il principio che i miei amici Radicali dovrebbero difendere, anziché buttarsi (con onestà donchisciotetsca) in un pasticcio, estremamente sensato, ma alquanto pietistico, di ragazze madri e di femministe, angosciate in realtà da “altro” (e di più grave e serio). Qual è il quadro, in realtà, in cui la nuova figura del reato di eutanasia dovrebbe iscriversi?
Eccolo: un tempo la coppia era benedetta, oggi è maledetta. La convenzione e i giornalisti imbecilli continuano a intenerirsi sulla “coppietta” (in tal modo, abominevolmente, la chiamano), non accorgendosi che si tratta di un piccolo patto criminale. E così i matrimoni: un tempo essi erano feste, e la stessa loro istituzionalità – così stupida e sinistra – era meno forte del fatto che la istituiva, un fatto, appunto, felice, festoso. Ora invece i matrimoni sembrano tutti dei grigi e affettati riti funebri. La ragione di queste cose terribili che dico è chiara: un tempo la “specie” doveva lottare per sopravvivere, quindi le nascite “dovevano” superare le morti. Quindi, ogni figlio che un tempo nasceva, essendo garanzia di vita, era benedetto: ogni figlio che nasce oggi, è un contributo all’autodistruzione dell’umanità, e quindi è maledetto.
Siamo così giunti al paradosso che ciò che si diceva contro natura è naturale, e ciò che si diceva contro natura è naturale. Ricordo che De Marisco (collaboratore del codice Rocco) in una brillante arringa in difesa di un mio film, ha dato del “porco” a Braibanti, dichiarando inammissibile il rapporto omosessuale in quanto inutile alla sopravvivenza della specie: ora, egli, per essere coerente, dovrebbe, in realtà, affermare il contrario: sarebbe il rapporto eterosessuale a configurarsi come un pericolo per la specie, mentre quello omosessuale ne rappresenta una sicurezza.
In conclusione: prima dell’universo del parto e dell’aborto c’è l’universo del coito: ed è l’universo del coito a formare e condizionare l’universo del coito e dell’aborto. Chi si occupa, politicamente, dell’universo del parto e dell’aborto non può considerare come ontologico l’universo del coito – e non metterlo dunque in discussione – se non a patto di essere qulunquistico e meschinamente realistico. Ho già abbozzato come si configura, oggi, in Italia, l’universo del coito, ma voglio, per concludere, riassumerlo.
Tale universo include una maggioranza totalmente passiva e nel tempo stesso violenta, che considera intoccabili tutte le sue istituzioni, scritte e non scritte. Il suo fondo è tuttora clerico-fascista con tutti gli annessi luoghi comuni. L’idea dell’assoluto privilegio della normalità è tanto naturale quanto volgare e addirittura criminale. Tutto vi è precostituito e conformistico, e si configura come un “diritto” (compresa la tragicità e il mistero impliciti nell’atto sessuale) viene assunto conformisticamente. Per inerzia, la guida di tutta questa violenza maggioritaria è ancora la Chiesa cattolica. Anche nelle sue punte progressiste e avanzate (si legga il capitoletto, atroce, a pag. 323 de La Chiesa e la sessualità del progressista e avanzato S. H. Pfurtner). Senonché... senonché nell’ultimo decennio è intervenuta la civiltà dei consumi, cioè un nuovo potere falsamente tollerante che ha rilanciato in scala enorme la coppia, privilegiandola di tutti i diritti del suo conformismo. A tale potere non interessa, però, una coppia creatrice di prole (proletaria), ma una coppia consumatrice (piccolo borghese): in pectore, esso ha già dunque l’idea della legalizzazione dell’aborto (come aveva già l’idea della ratificazione del divorzio).
Non mi risulta che gli abortisti, in relazione al problema dell’aborto, abbiano messo in discussione tutto questo. Mi risulta invece che essi, in relazione all’aborto, tacciano del coito, e ne accettino, dunque – per Realpolitik, ripeto, in un silenzio dunque diplomatico e dunque colpevole – la sua totale istituzionalità, irremovibile e “naturale”.
La mia opinione estremamente ragionevole invece è questa: anziché lottare contro la società che condanna l’aborto repressivamente, sul piano dell’aborto, bisogna lottare contro tale società sul piano della causa dell’aborto, cioè sul piano del coito. Si tratta – è chiaro – di due lotte “ritardate”: ma almeno quella “sul piano del coito” ha il merito, oltre che di una maggiore logicità e di un maggiore rigore, anche quello di un’infinitamente maggiore potenzialità di implicazioni.
C’è da lottare, prima di tutto contro la “falsa tolleranza” del nuovo potere totalitario dei consumi, distinguendosene con tutta l’indignazione del caso; e poi c’è da imporre alla retroguardia, ancora clerico-fascista, di tale potere, tutta una serie di liberalizzazioni “reali” riguardanti appunto il “coito” (e dunque i suoi effetti): anticoncezionali, pillole, tecniche amatorie diverse, una moderna moralità dell’onore sessuale ecc. ecc. Basterebbe che ciò fosse democraticamente diffuso dalla stampa e soprattutto dalla televisione, e il problema dell’aborto verrebbe in sostanza vanificato, pur restando, come deve essere, una colpa, e quindi un problema della coscienza. Tutto ciò è utopistico? È folle pensare che una “autorità” compaia al video reclamizzando “diverse” tecniche amatorie? Ebbene, non sono certo gli uomini con cui io qui polemizzo che devono spaventarsi di questa difficoltà. Per quanto io ne so, per essi ciò che conta è il rigore del principio democratico, non il dato di fatto (com’è invece brutalmente, per qualsiasi partito politico).
Infine: molti – privi della virile e razionale capacità di comprensione – accuseranno questo mio intervento di essere personale, particolare, minoritario. Ebbene?

Corriere della Sera, 19 gennaio 1975.



Risposta a Pasolini

di Giorgio Manganelli

Da qualche tempo mi accade di leggere le prose teoretiche di Pier Paolo Pasolini con una sorta di devozionale raccapriccio: non oserò dire che scrive male, tenuto conto anche della media nazionale, ma che scrive, all’incirca, come un sociologo che, dopo passionali e discontinui studi giuridici, abbia scoperto e incautamente amato una letteratura, degli autori non indiscriminatamente consigliabili, tanto per fare une sempio, Giovanni Papini, Luigi Russo e l’ultimo Pier Paolo Pasolini. Mi rendo conto di essere caduto in un errore di logica, ma di un genere così squisitamente pasoliniano, da non trovar cuore per emendarlo. Quello che si nota, in questi ultimi scritti, è una tale qualntità di superiorità morale nei confronti dell’universo, da essere difficilmente compatibile con una prosa comprensibile. Era già successo al tempo del divorzio, succede di nuovo oggi sul tema dell’aborto. Il lettore ha l’impressione di tentare l’autostop durante gli ultimi tre giri sulla pista di Indianapolis: estremamente frustrante. Non sono assolutamente certo di aver capito tutto, ma quel che ho capito ha provocato in me una varietà di emozioni di cui ecrcherò di render conto, supponendole comuni ad altri mortali.
Il problema dell’aborto, ovviamente, pone in primo luogo il tema della mamma: Pasolini afferma di vivere “nei sogni e nel comportamento quotidiano” la sua vita prenatale, quella che egli chiama “la mia felice immersione nelle acque materne”. Sarà, ma la mia memoria maniotica è piuttosto corta. Che allora fossi felice, chissà mai, senza nemmeno un libro da leggere; in ogni caso, molti, ed io di questi, se invece di essere partoriti fossero stati abortiti, non se ne sarebbero avuti a male. Con lieve correzione dell’apotropaico detto popolare, “di mamma ce n’è una sola”, dal contesto di pasolini si può trarre lo slogan programmatico, “di mamme ce n’è un milardo solo”. Troppe, a mio modo di vedere. A questo punto, uno crede di avere acchiappato un bandolo e gli corre dietro: facciamo la conta delle mamme, facciamo delle proposte, tutto potrebbe rientrare nella difesa del paesaggio. Ci arriveremo, all’ecologia, ma più tardi; intanto ci sono delle riflessioni erratiche e concitate.
I Radicali hanno ceduto al fascino cinico della realpolitik; la maggioranza ha sempre torto, i “principi reali” – non so cosa siano, potrebbe essere un bon mot antimonarchico – non coincidono con i diritti della maggioranza. Ottimamente: se le cose stanno così, siamo perfettamente d’accordo. La maggioranza è conformista, dunque “brutalmente repressiva”: c’è perfino l’ombra di un sillogismo. Niente da dire.

Ora qualcuno potrebbe mettersi in testa che costringere una donna, che già deve varcare la soglia infera del trauma dell’aborto, a comportarsi come un animale braccato, a rischiare la vita, e infine ad essere dichiarata “delinquente” a nome del popolo italiano sia un comportamento abbastanza repressivo. Macché: come saviamente argomenta il Pasolini, la “maggioranza” vuole l’aborto, perché la coppia eterosessuale ha scoperto il coito consumistico, lo vive come dovere sociale della propria figura di consumatore. È del tutto evidente che Pasolini considera l’aborto come un’attività psicologicamente distensiva, una faccenda da carosello.
Essendo stati esentati dall’arbitrio della natura da codeste scelte, una tal quale prudenza non sarebbe di troppo. Diciamo, di indiretta scienza, che l’aborto non ha mai fatto ridere nessuno; alcuni anni fa, mi accadde di assistere ad un suicidio nell’Aniene di uan domestica: incinta; quando ero insegnante, una mia allieva si gettò da un quarto piano: incinta; chissà quale illusione le aveva persuase di essere oggetto di una “brutale repressione”; forse una cultura che tratta da “puttana” la ragazza madre, che le porta via i figli per infilarli in quelle case di riposo per angeli che sono i nostri brefotrofi, che garantisce una vita di disprezzo, di frustrazione, di irrisione, non ha tutte le carte in regola per discutere della sacra vita.

Ma stiamo sul terra terra: tutta questa campagna contro l’aborto è nata, se non sbaglio, da un’iniziativa dell’onorevole Pisanò, MSI: a me basta così, non occore altro; ma se vogliamo c’è dell’altro; tutto comincia a Firenze, negli uffici di quella procura che aveva dichiarato non punibile il massacro di un anarchico figlio di N.N., un tale la cui madre non aveva avuto la saggezza di abortire, ma aveva pensato che “la vita è sacra”. Sembrerebbe chiaro, no? Macché: con uno di quei glissando logici che a me danno il capogiro, Pasolini, mentre saccheggia mamme e maggioranze per contrastare l’aborto, definisce codesta opposizione “vecchia convenzione clerico fascista”: e se la prende con Fanfani che farebbe non so che che giochi – tanto lui li fa sempre – “in barba al Vaticano”.
Si ha l’impressione che di Pasolini ce ne siano troppi, è da tutte le parti. A questo punto, Pasolini scopre il “coito politico”: pensando e ripensando, di “coiti politici” ne ho trovati sicuramente due; quello con le prostitute, e quello con la propria moglie in quanto moglie, non in quanto la propria donna, “lei”; questi due coiti sono le colonne della nostra società. Tecnicamente, oserei affermare che sono gli unici coiti esistenti; tutti gli altri, senza distinzione di fecondi o infecondi, rientrano nell’assai più vasta e tragica categoria dei rapporti umani, quei rapporti che sono sempre frammentari, isolati, “repressi” dai fruitori dei coiti, condannati sempre a passare per misteriosi contatti e lacunosi dialoghi e impervi silenzi. Oggi il coito è “diverso”, scrive Pasolini, perché “il contesto politico di oggi è quello della tolleranza”.
Questo si chiama massificare, altro che romanzi, neanche la statistica riesce ad essere così vilipendiosamente elementare. Ma i giochi non sono finiti: Pasolini recupera una proposta di compromesso, suggerendo di includere l’aborto nel reato di eutanasia, “privilegiandolo di uan serie di attenuanti di carattere ecologico”; infatti, il reato di aborto potrebbe essere visto come un compenso al reato – “piccolo patto criminale” – consumato dalla coppia che, unendosi, rischia di produrre altri bambini che, inevitabilmente, contribuirebbero alla fine dell’umanità per pletora planetaria. Questo non è n glissando, è uno slalom. A questo punto, viene una gran nostalgia di Voltaire, di Swift, di Bertrand Russell, magari della logica di Aristotele, aio e pedante.
Vorrei concludere questa giostra logica con due annotazioni. Suppongo che per Pasolini l’esito del referendum sul divorzio sia una prova che la maggioranza sia – non m’importa ora quello che Pasolini pensa che sia; mi chiedo com’era fatta quella maggioranza: come mai la maggioranza “silenziosa” ha votato “no”? Un’ipotesi che una parte di questa maggioranza abbia avuto vergogna dei suoi compagni “clerico fascisti” e anche della propaganda per l’abrogazione; così una minoranza staccò una parte della maggioranza dal resto schiettamente fascista, il vero cuore della maggioranza silenziosa. Prova ne sia che oggi l’Italia, dopo aver votato “no”, continua a vivere il mondo del “sì”. Infine, a furia di dribbling, ho l’impressione che Pasolini abbia ingannato se stesso: intervento “minoritario”, il suo? Non direi.

Corriere della Sera, 22 gennaio 1975.

lunedì 17 marzo 2008

ISLANDA SALATA

La ruga d'acqua incisa nel tuo bosco
risale la cima mentre la tua mano,
distrattamente,
conta i passi avanti e le pietre rotonde
sul cammino:
ciò che l'occhio non vede sta sopra di noi,
avvinghiati, muti, amanti.

Quarti di luce spezzata,
intorno,
pupilla cerula che cede alla ritmica
tua presenza.

Ah! Fortezza di chi muove le dita
in questo solco di fuoco:

Tiepida, terapeutica Islanda
salata che sa di limone.

Maria Dindaco

EX FALSO QUODLIBET

Un'osservazione non polemica, ma che propongo per amor di precisione logica. E che vale per coloro che proclamano l'equivalenza di capitalismo e fondamentalismo terrorista. Ebbene, sovrapporre il sistema capitalistico - che necessita indubbiamente oggi di correttivi e riforme - all'ideologismo religioso di matrice integralista significa istituire un'identità tra enti per natura dissimili, rendendo meri indifferenti aggressione e reazione, diffusione economica e pura volontà di dominio, necessità politica ed imperialismo. In una formula, si confonde la molteplicità delle differenze con l'unità di ciò che è identico, come se capitalismo e rapina violenta, realismo politico e terrorismo islamico rappresentassero il recto e il verso di una stessa medaglia. Civettando con termini della logica, si può parlare di "incoerenza proposizionale". Che "due (duplicità e differenza) è uguale a uno (unicità e identità)" è esempio di proposizione autocontraddittoria, a partire dalla quale diviene lecito istituire qualunque paradosso. Ad esempio, è certo che io sono io ed il Papa è il Papa. Quindi io e il Papa siamo due. Ma due è uguale a uno. Perciò io e il Papa siamo uno. Dunque il capitalismo delle liberal-democrazie è pari al terrorismo.
Ed io sono il Papa.

MaxKlingerBoeri

NOLITE SOLLICITI ESSE IN CRASTINUM

L'oggi che muore intendere non sai
e al non nato diman tu vai pensando:
fin che tu sei, diman non è, ma quando
il dimani sarà, tu non sarai.

Ei nasce ogni momento e muor volando,
il poco è cibo suo, fame l'assai,
ha per utero il poi, feretro il quando,
principio il fine, ultimo fine il mai.

L'ieri e il diman dell'oggi eterni vani
sono, e 'l sempre del tempo è l'oggi stesso
e non son più d'un oggi i giorni umani.

La vita è un oggi al suo dimani appresso,
ma fuor dell'oggi non pensar dimani,
ché il tuo dimani è un momentaneo adesso.

Predica versificata su un tema evangelico.

bETELGEUSE

venerdì 14 marzo 2008

LUNGO SILENZIO

Era diventato muto
cadendo
da una impalcatura.
Scherzi della natura.
Dopo diciassette anni
parlò.
La prima parola
che disse fu
... Dio ...
Miracolo stupendo!
In effetti
stava finendo
la bestemmia cominciata
diciassette anni prima
quando gli mancò sotto
lo scalino
mentre
cercava la lima.

Marcello Marchesi, 1962

Da bETELGEUSE

DUE CITAZIONI

"La rinuncia alla vita e a tutti i bisogni umani è il dogma principale dell'economia. Quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al ballo e all'osteria, quanto meno pensi, ami, fai teorie, canti, dipingi, verseggi ecc., tanto più risparmi, tanto più grande diventa il tuo tesoro, che né i tarli, né la polvere possono consumare, il tuo capitale. Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai; quanto più grande è la tua vita alienata, tanto più accumuli del tuo essere estraniato. Tutto ciò che l'economia ti porta via di vita e di umanità, te lo restituisce in denaro e ricchezza; e tutto ciò che tu non puoi, può il tuo denaro. Esso può mangiare, bere, andare a teatro e al ballo, se la intende con l'arte, con la cultura, con le curiosità storiche, col potere politico, può viaggiare; può insomma impadronirsi per te di tutto quanto; può tutto quanto comprare: esso è il vero e proprio potere".
(Marx, Manoscritti economico-filosofici)

"Noi moderni abbiamo due concetti che mancavano ai Greci e che sono dati, per così dire, come strumenti di consolazione a un mondo che si comporta in un modo del tutto degno di schiavi, pure evitando timorosamente la parola "schiavo": noi parliamo della "dignità dell'uomo" e della "dignità del lavoro". Tutti si tormentano per perpetuare una vita miserabile: questo tremendo bisogno costringe a un lavoro divorante che l'uomo (o meglio l'intelletto umano), sedotto dalla "volontà", ammira talvolta come qualcosa pieno di dignità. [...] Lo schiavo, infatti, per sua natura, deve designare tutti i suoi interessi con nomi ingannevoli, per poter vivere. Tali fantasmi, come la dignità dell'uomo e la dignità del lavoro, sono i miseri prodotti di una schiavitù che vuole nascondersi a se stessa".
(F. Nietzsche, "Cinque prefazioni per cinque libri non scritti. Terza prefazione: Lo Stato greco, pp. 223-224)

Da bETELGEUSE

giovedì 13 marzo 2008

MOVIMENTO PER LA DECRESCITA FELICE

Un vasetto di yogurt prodotto industrialmente e acquistato attraverso i circuiti commerciali, per arrivare sulla tavola dei consumatori, percorre da 1.200 a 1.500 chilometri, costa 10 euro al litro, subisce trattamenti di conservazione che spesso uccidono i batteri. Lo yogurt autoprodotto facendo fermentare il latte con opportune colonie batteriche non deve essere trasportato, costa il prezzo del latte, non ha conservanti ed è ricchissimo di batteri. Lo yogurt autoprodotto è pertanto di qualità superiore rispetto a quello prodotto industrialmente, costa molto dimeno, non comporta consumi di fonti fossili e di conseguenza riduce le emissioni di CO2. Tuttavia questa scelta, che migliora la qualità della vita di chi la compie, comporta un decremento del prodotto interno lordo: sia perché lo yogurt autoprodotto non passa attraverso la mediazione del denaro, quindi fa diminuire la domanda di merci, sia perché non richiede consumi dicarburante, quindi fa diminuire la domanda di merci. La sostituzione dello yogurt prodotto industrialmente e acquistato con yogurt autoprodotto comporta un miglioramento della qualità della vita e un decremento del prodotto interno lordo. Il decremento del prodotto interno lordo è la conseguenza del miglioramento della qualità della vita. Ciò disturba i ministri delle finanze perché riduce il gettito dell'IVA e delle accise sui carburanti; i ministri dell'ambiente perché di conseguenza si riducono gli stanziamenti dei loro bilanci e non possono più sovvenzionare le fonti energetiche alternative nell'ottica dello «sviluppo sostenibile»; isindaci, i presidenti di regione e di provincia perché non possono più distribuire ai loro elettori i contributi statali per le fonti alternative.
Ma non è tutto.
I fermenti lattici contenuti nello yogurt fresco autoprodotto arricchiscono la flora batterica intestinale e fanno evacuare meglio. Le persone affette da stitichezza possono iniziare la loro giornata leggeri come libellule. Pertanto la qualità della loro vita migliora e il loro reddito ne ha un ulteriore beneficio, perché non devono più comprare purganti. Ma ciò comporta una diminuzione della domanda di merci e del prodotto interno lordo. Anche i purganti prodotti industrialmente e acquistati attraverso i circuiti commerciali, per arrivare nelle case dei consumatori percorrono migliaia di chilometri. La diminuzione della loro domanda comporta dunque una diminuzione dei consumi di carburante e un ulteriore decremento del prodotto interno lordo. Ciò disturba una seconda volta i ministri delle finanze e dell'ambiente, i sindaci, i presidenti di regione e di provincia per le ragioni già dette.
Ma non è tutto.
La diminuzione della domanda di yogurt e di purganti prodotti industrialmente comporta una riduzione della circolazione degli autotreni che li trasportano e, quindi, una maggiore fluidità del traffico stradale e autostradale. Gli altriautoveicoli possono circolare più velocemente e si riduconogli intasamenti. Di conseguenza migliora la qualità della vita. Ma diminuiscono anche i consumi di carburante e siriduce il prodotto interno lordo. Ciò disturba una terza volta i ministri delle finanze e dell'ambiente, i sindaci, i presidenti di regione e di provincia per le ragioni già dette.
Ma non è tutto.
La diminuzione degli autotreni circolanti su strade eautostrade diminuisce statisticamente i rischi di incidenti. Questo ulteriore miglioramento della qualità della vita indotto dalla sostituzione dello yogurt prodotto industrialmente con yogurt autoprodotto, comporta una ulteriore diminuzione del prodotto interno lordo, facendo diminuire sia le spese ospedaliere, farmaceutiche e mortuarie, sia le spese per le riparazioni degli autoveicoli incidentati e gli acquisti di autoveicoli nuovi insostituzione di quelli non più riparabili. Ciò disturba una quarta volta i ministri delle finanze edell'ambiente, i sindaci, i presidenti di regione e di provincia per le ragioni già dette. Il Movimento per la Decrescita Felice si propone di promuovere la più ampia sostituzione possibile delle merci prodotte industrialmente ed acquistate nei circuiti commerciali con l'autoproduzione di beni. In questa scelta, che comporta una diminuzione del prodotto interno lordo, individua la possibilità di straordinari miglioramenti della vita individuale e collettiva, delle condizioni ambientali e delle relazioni tra i popoli, gli Stati e le culture. La sua prospettiva è opposta a quella del cosiddetto «sviluppo sostenibile», che continua a ritenere positivo il meccanismo della crescita economica come fattore di benessere, limitandosi a proporre di correggerlo conl'introduzione di tecnologie meno inquinanti e auspicando una sua estensione, con queste correzioni, ai popoli che non a caso vengono definiti «sottosviluppati». Nel settore cruciale dell'energia, lo «svilupposostenibile», a partire dalla valutazione che le fontifossili non sono più in grado di sostenere una crescita durevole e una sua estensione a livello planetario, ne propone la sostituzione con fonti alternative. Il Movimentoper la Decrescita Felice ritiene invece che questa sostituzione debba avvenire nell'ambito di una riduzione del prodotto interno lordo mediante una riduzione dei consumi, da perseguire sia con l'eliminazione di sprechi, inefficienze e usi impropri, sia con l'eliminazione dei consumi indotti da un'organizzazione economica e produttiva finalizzata alla sostituzione dell'autoproduzione di beni con la produzione e la commercializzazione di merci. Questa prospettiva comporta che nei paesi industrializzatisi riscoprano e si valorizzino stili di vita del passato, irresponsabilmente abbandonati in nome di una malintesa concezione del progresso, mentre invece hanno ampie prospettive di futuro non solo nei settori tradizionali dei bisogni primari, ma anche in alcuni settori tecnologicamente avanzati e cruciali per il futuro dell'umanità, come quello energetico, dove la maggiore efficienza e il minor impatto ambientale si ottengono con impianti di autoproduzione collegati in rete per scambiare le eccedenze. Nei paesi lasciati in stato di indigenza dalla rapina delle risorse che sono state necessarie alla crescita economica dei paesi industrializzati, un reale e duraturo miglioramento della qualità della vita non potrà esserci riproducendo il modello dei paesi industrializzati, ma solo con una crescita dei consumi che non comporti una progressiva sostituzione dei beni autoprodotti con merciprodotte industrialmente e acquistate. Una più equa redistribuzione delle risorse a livello mondiale non sipotrà avere se la crescita del benessere di questi popoli avverrà sotto la forma crescita del prodotto interno lordo, nemmeno se fosse temperata dai correttivi ecologici dello «sviluppo sostenibile». Che del resto è un lusso perseguibile solo da chi ha già avuto più del necessario da uno sviluppo senza aggettivi.

Per aderire al movimento è sufficiente:

- autoprodurre lo yogurt o qualsiasi altro bene primario: la passata di pomodoro, la marmellata, il pane, il succo di frutta, le torte, l'energia termica e l'energia elettrica, oggetti e utensili, le manutenzioni ordinarie;
- fornire i servizi alla persona che in genere vengono delegati a pagamento: assistenza dei figli nei primi annid'età, degli anziani e dei disabili, dei malati e dei morenti.

L'autoproduzione sistematica di un bene o lo svolgimento di un servizio costituisce il primo grado del primo livello diadesione. I livelli successivi del primo grado sono commisurati al numero dei beni autoprodotti e dei servizi alla persona erogati. L'autoproduzione energetica vale il doppio. Il secondo grado di adesione è costituito dall'autoproduzione di tutta la filiera di un bene: dal latte allo yogurt; dal grano al pane, dalla frutta alla marmellata, dai pomodori alla passata, dalla gestione del bosco al riscaldamento. Anche nel secondo grado i livelli sono commisurati al numero dei beni autoprodotti e la filiera energetica vale il doppio.

Dr. Riegl

mercoledì 12 marzo 2008

L'ALIBI

A mezzogiorno e cinque si tirò una revolverata in pieno petto. Poi, scese sotto casa, prese un tavolo nel solito bistrot e vi trascorse l'intero pomeriggio.

MaxKlingerBoeri

RES SERIAS

bREVE SCAMBIO SU "lA rEPUBBLICA"

SCRIPSIT EGO:

Il “Festival dell’Economia” di Trento,
quest’anno centrato sulla diade “capitale
umano - capitale sociale” si è
concluso con le considerazioni di Gary
Becker che rimanda il successo alla
“capacità di una nazione di utilizzare
la sua gente”, definendo il “capitale
sociale” come “un bene che ha a
che fare con le competenze dell’uomo,
la sua istruzione, la sua salute”.
Si tratta di “capitale” - in accezione
non solo metaforica - poiché “è parte
integrante di ciascuno di noi, un qualcosa
che dura, come dura un macchinario,
un impianto o una fabbrica”.
“Le macchine sono importanti - chiarisce
Becker - ma la crescita è impossibile
in assenza di una solida base di
capitale umano”.
Non occorre a questo punto uno slancio
eccessivo della memoria, per ricordare
Heidegger, che ne “L’oltrepassamento
della Metafisica” ammonisce
come l’uomo sia divenuto, entro l’orizzonte
tecnologico, “la materia prima
più importante”, nulla più di questo.
Una pertinenza del capitale che, in
qualità di simulacro dell’Apparato tecnico
assurto a Soggetto, riduce infine
l’uomo a suo mero predicato. Ma si
tratta oggi, mi pare, di una riduzione
dissimulata, ovvero giocata sulla falsa
sublimazione dell’elemento umano
perché se il capitale “è parte integrante
di ciascuno di noi”, ciò non significa
forse un appiattimento dell’individuo
su quelle competenze che
l’Apparato esige in vista del proprio
accrescimento; un accrescimento privo
di scopi e referenti che siano diversi
dall’Apparato stesso?
Le visuali di Becker e Tito Boeri (responsabile
scientifico del Festival)
collimano: il “capitale umano” identificato
nel “bagaglio di conoscenze personali”,
è ciò che aumenta le probabilità
di sopravvivenza dell’individuo entro
i meccanismi procedurali del sistema
della tecnica, rendendo ciascuno
più produttivo e meno rimpiazzabile.
Eppure, la volontà dichiarata di collocare
in primo piano l’uomo, i suoi sogni
di prosperità e di felicità, si stempera,
credo, nel quadro via via più
obiettivo dei primati che la tecnica sa
conseguire. Perciò mi domando: se
l’individuo è “funzionalmente” determinato,
se il capitale, lungi dall’essere
un mezzo di asservimento, diviene misura
stessa della persona, delle sue
qualità quantificabili, non è per ciò evidente
il feticismo di un “capitale” che
si fa “umano”, con l’accurata cordialità
dell’imbonitore? Perché se il capitale
sono io, se io stesso esprimo la razionalità
sistematica del calcolo in cui
si fonda l’Apparato, allora nemmeno la
luce della critica ha più ragion d’essere.
Il pensiero può procedere tranquillo
sulla logica binaria del “funzionale”
o “disfunzionale” - del “si” o del “no” -
senza intermediazioni né diversivi.
Se l’uomo si “capitalizza”, cosa resta?

bETELGEUSE

E LUI A ME:

Scrive Pier Luigi Celli
ne L’illusione manageriale
(Laterza): “L’impresa,
con la sua ritirata dal sociale,
ha favorito una iper
semplificazione degli strumenti
concettuali, che non sono più
in grado di interpretare le nuove
complessità, rendendo povere
le competenze delle imprese
proprio su quei conflitti
che ora sono diventati critici”.

Già il fatto che si parli dell’uomo come di
un “capitale” o vi si faccia riferimento come
a una “risorsa” (le cosiddette “risorse
umane”) la dice lunga in ordine al punto
di vista che oggi si assume nel considerare
l’uomo. Tramontato il principio che regolava
l’etica kantiana secondo cui: “L’uomo
va trattato sempre come un fine e mai soltanto
come un mezzo”, oggi vediamo che non solo
l’immigrato, ma ciascuno di noi ha diritto
di cittadinanza non in quanto esiste, non
in quanto è un uomo, ma solo in quanto
“mezzo” di produzione e di profitto. A ciò
si aggiunga il fatto che per l’economia, e a
maggior ragione per la tecnica e per la razionalità
che le governa, modello di efficienza
e di funzionalità è la “macchina”,
che non soffre di quegli “inconvenienti
umani” che sono lo stato di salute, la variazione
degli umori, i ritmi di efficienza, i
livelli di precisione, che fanno sentire l’uomo
inadeguato rispetto alle macchine che
impiega, anche perché dette macchine,
dal computer al cellulare, giusto per fare
degli esempi, incorporano una quantità tale
di cultura oggettivata, da fare apparire la
cultura soggettiva di chi le impiega in tutto
il suo limite e la sua inadeguatezza.
Eppure, anche se nel complesso macchinale
l’uomo percepisce se stesso come il
congegno più asincronizzato, può davvero
la ragione strumentale che governa sia la
tecnica sia l’economia e che utilizza solo il
pensiero calcolante regolato da criteri di
efficienza, produttività, obbiettivi a breve e
medio termine, essere all’altezza della
globalizzazione del mercato che, per essere
compresa, richiede competenze antropologiche
per entrare in relazione con altre
culture e visioni del mondo di cui il pensiero
calcolante è del tutto sprovvisto?
Se il tipo di pensiero è limitato al calcolo tipico
della ragione strumentale, forse le imprese
che si regolano esclusivamente su
questo tipo di pensiero si precludono la
capacità di anticipare e governare i cambiamenti,
col risultato che avranno sì una
storia, ma non un futuro, per aver trascurato
quello che loro chiamano il “capitale
umano” che ha ritmi di accumulazione
radicalmente diversi dal capitale finanziario.
Se quest’ultimo infatti si misura sui tempi
brevi del rendiconto trimestrale e della
quotazione in borsa, il cosiddetto “capitale
umano” esige un respiro più lungo e una
forza che si conquista per maturazioni e
arricchimenti successivi, di cui il pensiero
calcolante non ha la più pallida idea.

uMBERTO gALIMBERTI

FETICCI

E' chiaro che Freud avesse ragione: il sentimento religioso richiama una sorta di "nevrosi ossessiva universale" - a carattere feticistico, aggiungerei. I cristiani immolano ritualmente il proprio dio, divorandoselo. Pane e vino transustanziati come carne e sangue, ma è roba di venti secoli fa. A questo punto non mi meraviglia che a qualche prete venga voglia di carne più fresca.

Father Dolando

RESURGEMUS

In un mondo in cui Susanna Tamaro vende quindici milioni di copie, il progetto ginecocratico di riforma sociale fa definitivamente naufragio.

MaxKlingerBoeri

NON SUM DIGNUS DEO

Il Berlusconismo è una forma illudente di "miracolismo", inteso come "l'atteggiamento ottimistico di chi ripone eccessiva fiducia in metodi e sistemi, ritenuti in grado di risolvere questioni gravi e complesse, senza tener conto delle difficoltà e degli ostacoli oggettivi". Dunque, "populismo miracoleggiante" o "miracolismo populistico-demagogico". Berlusconi il miracolatore finto-ingenuo.
La Sinistra, al contrario, è meno precisabile, più fuggevole: si scinde in un'anima marxista, una leninista, una gramscian-comunista, una liberal-socialista, una pacifista, una combattista, una complottista, una sospettista, una post-femminista, una post-antifascista, una pro-castrista, una guevarista, una vetero-maoista, un'antiproibizionista, una antiamericanista-antimilitarista, una revanchista, una semobbèllisolonoantrista, una minimalista, un'antimilanistaperaggiònipolitiche-ista, etc.

bETELGEUSE

martedì 11 marzo 2008

I SADDUCEI E LA RESURREZIONE

Marco 12:18-27

18 Poi vennero a lui (Gesù, ndr) dei sadducei, i quali dicono che non vi è risurrezione, e gli domandarono: 19 «Maestro, Mosè ci lasciò scritto che se il fratello di uno muore e lascia la moglie senza figli, il fratello ne prenda la moglie e dia una discendenza a suo fratello. 20 C'erano sette fratelli. Il primo prese moglie; morì e non lasciò figli. 21 Il secondo la prese e morì senza lasciare discendenti. Così il terzo. 22 I sette non lasciarono discendenti. Infine, dopo tutti loro, morì anche la donna. 23 Nella risurrezione, quando saranno risuscitati, di quale dei sette sarà ella moglie? Perché tutti e sette l'hanno avuta in moglie». 24 Gesù disse loro: «Non errate voi proprio perché non conoscete le Scritture né la potenza di Dio? 25 Infatti quando gli uomini risuscitano dai morti, né prendono né danno moglie, ma sono come angeli nel cielo. 26 Quanto poi ai morti e alla loro risurrezione, non avete letto nel libro di Mosè, nel passo del «pruno», come Dio gli parlò dicendo: "Io sono il Dio d'Abraamo, il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe"? 27 Egli non è Dio dei morti, ma dei viventi. Voi errate di molto».

Commento

Cristo prefigura la "Comunità dei Corpi Risorti" come sostanzialmente priva di strutture parentali primarie ("non prenderanno moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli"). Al principio del tempo messianico cesseranno di esistere padri, figli, zie, congeneri e cugini; regnerà la pace universale e tutti gli individui risorti saranno finalmente liberi dal vincolo del bisogno materiale: regnerà una legge della produzione ("da ciascuno secondo il suo comodo") ed una legge della distribuzione ("a ciascuno secondo il suo comodo"). Non esisterà più la spina bifida, la distrofia muscolare di Duchenne, la carie dentale e il prurito al sedere. Nessuno avvertirà il desiderio di picchiare, rubare e dichiarare guerra; la categoria del potere si dissolverà insieme alla volontà di potenza, all'orgoglio, al narcisismo primario e secondario. Superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia e accidia periranno sotto la luce abbagliante dell'amore e della giustizia divini. A nessuno verrà più da orinare. Tantomeno sui muri. Poiché, oltre all'impulso vandalico, non esisteranno muri, steccati, pareti divisorie, tetti e pavimenti e nulla che possa ricondursi ai concetti di differenza, intercapedine e distanza, i quali rappresentano l'anticamera dell'odio beluino e il corridoio della violenza efferata. Non vi saranno anticamere, né corridoi: i risorti giaceranno come angeli in amore promiscuo e dall'empireo del Divino Soppalco redarguiranno con tono schernevole i dannati eterni, battendo l'indice sul dito medio della stessa mano.

Father Dolando