mercoledì 12 marzo 2008

RES SERIAS

bREVE SCAMBIO SU "lA rEPUBBLICA"

SCRIPSIT EGO:

Il “Festival dell’Economia” di Trento,
quest’anno centrato sulla diade “capitale
umano - capitale sociale” si è
concluso con le considerazioni di Gary
Becker che rimanda il successo alla
“capacità di una nazione di utilizzare
la sua gente”, definendo il “capitale
sociale” come “un bene che ha a
che fare con le competenze dell’uomo,
la sua istruzione, la sua salute”.
Si tratta di “capitale” - in accezione
non solo metaforica - poiché “è parte
integrante di ciascuno di noi, un qualcosa
che dura, come dura un macchinario,
un impianto o una fabbrica”.
“Le macchine sono importanti - chiarisce
Becker - ma la crescita è impossibile
in assenza di una solida base di
capitale umano”.
Non occorre a questo punto uno slancio
eccessivo della memoria, per ricordare
Heidegger, che ne “L’oltrepassamento
della Metafisica” ammonisce
come l’uomo sia divenuto, entro l’orizzonte
tecnologico, “la materia prima
più importante”, nulla più di questo.
Una pertinenza del capitale che, in
qualità di simulacro dell’Apparato tecnico
assurto a Soggetto, riduce infine
l’uomo a suo mero predicato. Ma si
tratta oggi, mi pare, di una riduzione
dissimulata, ovvero giocata sulla falsa
sublimazione dell’elemento umano
perché se il capitale “è parte integrante
di ciascuno di noi”, ciò non significa
forse un appiattimento dell’individuo
su quelle competenze che
l’Apparato esige in vista del proprio
accrescimento; un accrescimento privo
di scopi e referenti che siano diversi
dall’Apparato stesso?
Le visuali di Becker e Tito Boeri (responsabile
scientifico del Festival)
collimano: il “capitale umano” identificato
nel “bagaglio di conoscenze personali”,
è ciò che aumenta le probabilità
di sopravvivenza dell’individuo entro
i meccanismi procedurali del sistema
della tecnica, rendendo ciascuno
più produttivo e meno rimpiazzabile.
Eppure, la volontà dichiarata di collocare
in primo piano l’uomo, i suoi sogni
di prosperità e di felicità, si stempera,
credo, nel quadro via via più
obiettivo dei primati che la tecnica sa
conseguire. Perciò mi domando: se
l’individuo è “funzionalmente” determinato,
se il capitale, lungi dall’essere
un mezzo di asservimento, diviene misura
stessa della persona, delle sue
qualità quantificabili, non è per ciò evidente
il feticismo di un “capitale” che
si fa “umano”, con l’accurata cordialità
dell’imbonitore? Perché se il capitale
sono io, se io stesso esprimo la razionalità
sistematica del calcolo in cui
si fonda l’Apparato, allora nemmeno la
luce della critica ha più ragion d’essere.
Il pensiero può procedere tranquillo
sulla logica binaria del “funzionale”
o “disfunzionale” - del “si” o del “no” -
senza intermediazioni né diversivi.
Se l’uomo si “capitalizza”, cosa resta?

bETELGEUSE

E LUI A ME:

Scrive Pier Luigi Celli
ne L’illusione manageriale
(Laterza): “L’impresa,
con la sua ritirata dal sociale,
ha favorito una iper
semplificazione degli strumenti
concettuali, che non sono più
in grado di interpretare le nuove
complessità, rendendo povere
le competenze delle imprese
proprio su quei conflitti
che ora sono diventati critici”.

Già il fatto che si parli dell’uomo come di
un “capitale” o vi si faccia riferimento come
a una “risorsa” (le cosiddette “risorse
umane”) la dice lunga in ordine al punto
di vista che oggi si assume nel considerare
l’uomo. Tramontato il principio che regolava
l’etica kantiana secondo cui: “L’uomo
va trattato sempre come un fine e mai soltanto
come un mezzo”, oggi vediamo che non solo
l’immigrato, ma ciascuno di noi ha diritto
di cittadinanza non in quanto esiste, non
in quanto è un uomo, ma solo in quanto
“mezzo” di produzione e di profitto. A ciò
si aggiunga il fatto che per l’economia, e a
maggior ragione per la tecnica e per la razionalità
che le governa, modello di efficienza
e di funzionalità è la “macchina”,
che non soffre di quegli “inconvenienti
umani” che sono lo stato di salute, la variazione
degli umori, i ritmi di efficienza, i
livelli di precisione, che fanno sentire l’uomo
inadeguato rispetto alle macchine che
impiega, anche perché dette macchine,
dal computer al cellulare, giusto per fare
degli esempi, incorporano una quantità tale
di cultura oggettivata, da fare apparire la
cultura soggettiva di chi le impiega in tutto
il suo limite e la sua inadeguatezza.
Eppure, anche se nel complesso macchinale
l’uomo percepisce se stesso come il
congegno più asincronizzato, può davvero
la ragione strumentale che governa sia la
tecnica sia l’economia e che utilizza solo il
pensiero calcolante regolato da criteri di
efficienza, produttività, obbiettivi a breve e
medio termine, essere all’altezza della
globalizzazione del mercato che, per essere
compresa, richiede competenze antropologiche
per entrare in relazione con altre
culture e visioni del mondo di cui il pensiero
calcolante è del tutto sprovvisto?
Se il tipo di pensiero è limitato al calcolo tipico
della ragione strumentale, forse le imprese
che si regolano esclusivamente su
questo tipo di pensiero si precludono la
capacità di anticipare e governare i cambiamenti,
col risultato che avranno sì una
storia, ma non un futuro, per aver trascurato
quello che loro chiamano il “capitale
umano” che ha ritmi di accumulazione
radicalmente diversi dal capitale finanziario.
Se quest’ultimo infatti si misura sui tempi
brevi del rendiconto trimestrale e della
quotazione in borsa, il cosiddetto “capitale
umano” esige un respiro più lungo e una
forza che si conquista per maturazioni e
arricchimenti successivi, di cui il pensiero
calcolante non ha la più pallida idea.

uMBERTO gALIMBERTI

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