giovedì 5 giugno 2008

giovedì 8 maggio 2008

VIAGGIO NELLA POLITICA CON FANTASIA

di Giorgio Manganelli

Davanti al palazzo dei congressi fischiano e tumultuano innocui ragazzoni che vogliono un po’ d’attenzione dei delegati; grandi cartelli gridano l’affanno di una cooperativa Auspicio, e i giovanotti cercano di riassumere una intricata storia di infelicità edilizie. “Delegato all’assemblea DC, non gettarmi via: leggimi e cerca di capire!”.
Il picchetto di protesta ha un che di folkloristico, di popolare, e dà l’impressione che sia uno strumento involontario della redenzione della DC come partito “popolare”. Sanno di “natale dei poveri”, mandorlato e mostarda.
I democristiani mi fanno entrare nel palazzo – li guardo con curiosità, non ne avevo mai visti tanti - con un garbo mite ed ingenuo, un tratto assai alla mano, più naturale che volutamente cortese.
La sala enorme è semivuota, Gui ha finito di parlare da poco, e le sedie appaiono assolutamente sfinite; una poltroncina singhiozza in silenzio, consolata da tenere e pensose donne delle pulizie.
Tolgono le carte, lavano per terra, e la sala non proprio sorride ma un poco si racconsola. Sul banco dei potenti si allineano i birilli verdastri delle acque minerali – “non gasate, prego” – a scandire gli “spazi deputati” a coloro che già le sedie si dispongono ad attendere. Un poco alla volta, alcuni entrano, crecano la sedia con la quale hanno stabilito una sorta di complicità. Li guardo con interesse, quegli esseri calmi, un poco umili che credono alla fine del mondo, e insieme vogliono discutere sul modo assennato e onesto per maneggiare il mondo nelle more della sua scomparsa. Può un’anima immortale essere competente in caduchi trionfi ed effimere letizie?
Davanti a coloro che, via via più numerosi, entrano nella sala sta la grande scritta: “Per la società nuova un grande partito di popolo”. Stilisticamente e folosoficamente non mi sembra gran che, ma forse trascuro l’intima mozione degli affetti. D’altra parte nel “documento di base” avevo letto che qualcuno vuol costruire una società “a misura d’uomo” e ne avevo tratto una saggia tristezza. Guardo i vestiti dei delegati sempre più numerosi; una dignitosa sciatteria da madri di famiglia, scattanti completi di giovani praticanti di studi legali, ansiosi di sposarsi; uomini di mezza età, con aria che non so perché direi padana, domestica, ragionevolmente prolifica. Forse il tratto, l’aroma della famiglia è peculiare di questo convegno, una solidarietà parentale, più che strettamente ideologica. Ammiro qualche barbetta arguta, da scapolo che fa piangere la fidanzata.
Arrivano i primi importanti, in testa Taviani. Comincia una musica classica, o è Beethoven o è Wagner, o tutt’e due con un Verdi giovane. Niente inni di partito. Si annunciano le regole per gli interventi: quindici minuti, estensibili a venti. Un macchinoso sistema di luci avvertirà il parlante dell’abisso imminente. Quattro luci, poi via i microfoni. Sono dei duri.
Arriva Andreotti, la mano sinistra in tasca, un po’ alla Napoleone. Andreotti non sale sul palco, si siede in platea, chiacchiera con Forlani. Intanto cominciano gli interventi. Il primo è irrequieto, nervoso, aiutato da microfoni che fanno pasta delle sue indignazioni. Il suo narcisismo non è incoraggiato. I Grandi chiacchierano, o meditano.
Altri entrano: Evangelisti, passo lento e duro, Bassetti, elegante, un concettoso (fisicamente) Ardigò. Ma io sono dominato da una smania oscura, malsana di vedere Piccoli, la pietra filosofale della DC; macché, lui non viene. Il secondo intervento pare garbato e liscio, ma eccoti “un’ampia convergenza di opinioni”, “inerisce”, “nella misura in cui”.
Vedo una poltrona che si percuote lo schienale con i braccioli: pura disperazione. Poi una voce femminile, acre e minatoria, domina la sala distratta. Non mi stupirei che parlasse della fine del mondo. Sembra informata. Meglio uscire.

Corriere della Sera, 26 novembre 1981.

martedì 6 maggio 2008

PUSHER

In un momento dialettico dello spirito, ho dato risposta a me stesso circa una questione cruciale: precisamente questa: come mai la fede politica ed il suo nucleo morale non si riflettano pienamente nella pratica quotidiana; come mai, cioè, essi non rappresentino la traccia dominante in senso etico dei nostri vissuti; e per quale ragione gente che si proclama liberale non comprenda, né rispetti la differenza; o perché mai chi si dice di sinistra arrivi a piazzartelo in culo con tanta leggerezza, rimettendosi in tasca le belle parole spese un quarto d'ora prima circa l'ecumenismo umanitario, il pacifismo globale, etc. La soluzione è: discutendo di metapolitiche (massimi sistemi ideologici) cadiamo sovente vittima d'una sequela di autoallucinazioni, rappresentazioni immaginarie, stati autoindotti di degenerazione psicotropa, come veri e propri pusher di noi stessi: chi è liberale si autorappresenta paladino dell'uomo generico e delle sue libertà personali; chi sta a sinistra si millanta globalista, capopolo e difensore degli oppressi, laicizzando i principi evangelici dell'eguaglianza e dell'amore fraterno. Ma poi, alla prova dei fatti, il confronto tra Inclinazione Sensibile e Dovere Morale è incassato dalla formazione di casa: due a zero secco e senza favori arbitrali.

bETELGEUSE (d'annata)

PENSIERINI SULL'AMORE DOMESTICO

di Giorgio Manganelli

Non dispongo di una famiglia, e ne sento la mancanza. Non ho, ad esempio, una moglie indifesa da percuotere a sangue per motivi di minestra, e bambini da terrorizzare con mirabili malumori cosmici.
I terrori sono educativi. Nella mia infanzia io ho posseduto una famiglia normale - o piuttosto ne sono stato posseduto - vale a dire quel tipo di famiglia che, per vivere, ti fornisce di laurea e di una certa quantità di demenza. In realtà la demenza è il vero titolo di studio che ho ricavato dalla vita domestica, e grazie ad essa ho conquistato rinomanza, cravatte e il diritto di accedere a golosi ristoranti.
Mi dicono che una maggioranza di coloro che sono in istato di cattività familiare ritiene che l'amore sia il fondamento della famiglia; opinione accreditata dal clero, formato esclusivamente da celibi. In verità, se non ci fosse amore, non si proverebbe alcun piacere a percuotere la sposa, far venire gli incubi ai minorenni e indurre nella sposa vagheggiamenti vedovili. L'amor familiare consiste in un complicato ordigno che mescola possesso, diritti, aspettative, consuetudine, distrazioni, prevaricazioni, e taciturni, lenti affrontamenti, "bracci di ferro" che durano una vita.
Nella famiglia nessuno fa ciò che vorrebbe fare, e ciò sarebbe dovuto all'amore, ma inevitabilmente comporta una sorta di vapore di frustrazione, tra profumo e tanfo, che pervade i locali e le anime. Ne deriva un rancore neghittoso e taciturno, un parlar d'altro, una tecnica d'elusione.
A mio avviso l'amore assomiglia ad un voluminoso e greve animale, che giorno per giorno si scompone, scinde e recide; e le gambe si aggrovigliano alle orecchie, respira per forami innaturali, si colloca gli occhi sulla coda. Questo animale conserva, per quanto scomposto e ricomposto, una sorta di opaca razionalità, una funzionalità ostinata e tetra, e sviluppa una sua specifica ferocia, tenera, languida, benevola, generosa, quella appunto da cui con il trascorrere degli anni, germoglia quel titolo di studio insostituibile, che è la demenza dell'infante, demenza che si perfeziona nell'adolescenza, e fiorisce nella piena maturità.
Per poter funzionare, la famiglia ha bisogno di questa sorta di amore, che è fondata su di una serie di astensioni da se stessi che, ben sviluppata, può portare una donna ed un uomo e degli infanti a credere di essere veramente, cioè nella sostanza, mogli e mariti e figli. Inevitabilmente, questa situazione genera o un ignaro furore, o una sorte di allucinazione collettiva; coniugi e figli vivono "come se" fossero una famiglia. Chi volesse dedurre che questa descrizione fonda la famiglia sul sadismo e non sull'amore cadrebbe in un errore terminologico, giacché che il sadismo si fonda a sua volta sull'amore. E tenete presente che l'amore della famiglia si accompagna spesso all'amor di patria.

L'Europeo, 21 settembre 1981

lunedì 5 maggio 2008

QUESTIONI D'ARCHIVIO

Sono contro l'aborto

di Pier Paolo Pasolini

Io sono per gli otto referndum del Partito Radicale, e sarei disposto ad una campagna anche immediata in loro favore. Condivido col Partito Radicale l’ansia della ratificazione, l’ansia ciè del dar corpo formale a realtà esistenti: che è il primo principio della democrazia.
Sono però traumatizzato dalla legalizzazione dell’aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell’omicidio. Nei sogni e nel comportamento quotidiano – cosa comune a tutti gli uomini – io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente. Mi limito a dir questo, perché , a proposito dell’aborto, ho cose più urgenti da dire. Che la vita sia sacra è ovvio: è un principio più forte ancora che ogni principio della democrazia, ed è inutile ripeterlo.
La prima cosa che vorrei invece dire è questa: a proposito dell’aborto, è il primo, e l’unico, caso in cui i radicali e tutti gli abortisti democratici più puri e rigorosi si appellano alla Realpolitik e quindi ricorrono alla prevaricazione “cinica” dei dati di fatto e del buon senso.
Se essi si sono posti sempre, anzitutto, e magari idealmente (com’è giusto), il problema di quali siano i “principi reali” da difendere, questa volta non l’hanno fatto.
Ora, come essi sanno bene, non c’è un solo caso in cui i “principi reali coincidano con quelli che la maggioranza considera propri diritti. Nel contesto democratico, si lotta, certo, per la maggioranza, ossia per l’intero consorzio civile, ma si trova che la maggioranza, nella sua santità, ha sempre torto: perché il suo conformismo è sempre, per propria natura, brutalmente repressivo.
Perché io considero non “reali” i principi su cui i Radicali e in genere i progressisti (conformisticamente) fondano la loro lotta per la legalizzazione dell’aborto?
Per una serie caotica, tumultuosa ed emozionante di ragioni. Io so intanto, come ho detto, che la maggioranza è già tutta, potenzialmente, per la legalizzazione dell’aborto (anche se, magari, nel caso di un nuovo “referendum”, molti voterebbero contro, e la vittoria radicale sarebbe molto meno clamorosa). L’aborto legalizzato è infatti – su questo non c’è dubbio – una enorme comodità per la maggioranza. Soprattutto perché renderebbe ancora più facile il coito – l’accoppiamento eterosessuale – a cui non ci sarebbero più praticamente ostacoli. Ma questa libertà del coito della “coppia” così com’è concepita dalla maggioranza – questa meravigliosa permissività nei suoi riguardi – da chi è stata tacitamente voluta, tacitamente promulgata e tacitamente fatta entrare, in modo ormai irreversibile, nelle abitudini? Dal potere dei consumi, dal nuovo fascismo. Esso si è impadronito delle esigenze di libertà, diciamo così, liberali e progressiste e, facendole sue, le ha vanificate, ha cambiato la loro natura.
Oggi la libertà sessuale della maggioranza è in realtà una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un’ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità di vita del consumatore. Insomma, la falsa liberalizzazione del benessere, ha creato una situazione altrettanto e forse più insana che quella dei tempi della povertà. Infatti: primo: risultato di uan libertà sessuale “regalata” dal potere è una vera e propria generale nevrosi. La facilità ha creato l’ossessione; perché è una facilità “indotta” e imposta, derivante dal fatto che la tolleranza del potere riguarda unicamente l’esigenza sessuale espressa dal conformismo della maggioranza. Protegge unicamente la coppia (non solo, naturalmente, matrimoniale): e la coppia ha finito, dunque, col diventare una condizione parossistica, anziché diventare segno di libertà e felicità (com’era nelle speranze democratiche). Secondo: tutto ciò che sessualmente è “diverso” è invece ignorato e respinto. Con una violenza pari solo a quella nazista dei lager (nessuno ricorda mai, naturalmente, che i sessualmente diversi son finiti là dentro). È vero; a parole, il nuovo potere estende la sua falsa tolleranza anche alle minoranze. Non è magari da escludersi che, primo o poi, alla televisione se ne parli piubblicamente. Del resto le élites sono molto più tolleranti verso le minoranza sessuali che un tempo, e certo sinceramente (anche perché ciò gratifica le loro coscienze). In compenso l’enorme maggioranza (la massa: cinquanta milioni di italiani) è divenuta di una intolleranza così rozza, violenta e infame, come non è certo mai successo nella storia italiana. Si è avuto in questi anni, antropologicamente, un enorme fenomeno di abiura: il popolo italiano, insieme alla povertà, non vuole neanche più ricordare la sua “reale” tolleranza: esso, cioè, non vuole più ricordare i due fenomeni che hanno meglio caratterizzato l’intera sua storia. Quella storia che il nuovo potere vuole finita per sempre. È questa stessa massa (pronta al ricatto, al pestaggio, al linciaggio delle minoranze) che, per decisione del potere, sta ormai passando sopra la vecchia convenzione clerico-fascista ed è disposta ad accettare la legalizzazione dell’aborto e quindi l’abolizione di ogni ostacolo nel rapporto della coppia consacrata.
Ora, tutti, dai Radicali a Fanfani (che stavolta, precedendo abilmente Andreotti, sta gettando le basi di uan sia pur prudentissima abiura teologica, in barba al Vaticano), tutti, dico, quando parlano dell’aborto, omettono di parlare di ciò che logicamente lo precede, cioè il coito.
Omissione estremamante significativa. Il coito – con tutta la permissività del mondo – continua a restare tabù, è chiaro. Ma per quanto riguarda i Radicali la cosa non si spiega certamente col tabù: essa indica invece l’omissione di un sincero, rigoroso e completo esame politico. Infatti il coito è politico. Dunque non si può parlare politicamente in concreto dell’aborto, senza considerare come politico il coito. Non si possono vedere i segni di uan condizione sociale e politica nell’aborto (o nella nascita di nuovi figli) senza vedere gli stessi segni anche nel suo immediato precedente, anzi, “nella sua causa”, cioè nel coito.
Ora il coito di oggi sta diventando, politicamente, molto diverso da quello di ieri. Il contesto politico di oggi è già quello della tolleranza (e quindi il coito è un obbligo sociale) mentre il contesto politico di ieri era la repressività (e quindi il coito, al di fuori del matrimonio, era scandalo). Ecco dunque un primo errore di Realpolitik di compromesso col buon senso, che io ravviso nell’azione dei Radicali e dei progressisti nella loro lotta per la legalizzazione dell’aborto. Essi isolano il problema dell’aborto, coi suoi specifici dati di fatto, e perciò ne danno un’ottica deformata: quella che fa loro comodo (in buonafede, su questo sarebbe folle discutere).
Il secondo errore, più grave, è il seguente. I Radicali e gli altri progressisti che si battono in prima fila per la legalizzazione dell’aborto – dopo averlo isolato dal coito – lo immettono in una problematica strettamente contingente (nella fattispecie, italiana), e addirittura interlocutoria. Lo riducono a un caso di pura praticità, da affrontare appunto con spirito pratico. Ma ciò (come essi sanno bene) è sempre colpevole.
Il contesto in cui bisogna inserire il problema dell’aborto è ben più ampio e va ben oltre l’ideologia dei partiti (che distruggerebbero se stessi se l’accettassero: cfr. Breviario di ecologia di Alfredo Todisco). Il contesto in cui va inserito l’aborto è quello appunto ecologico: è la tragedia demografica, che, in un orizzonte ecologico, si presenta come la più grave minaccia alla sopravvivenza dell’umanità. In tale contesto la figura – etica e legale – dell’aborto cambia forma e natura: e, in un certo senso, può anche esserne giustificata una forma di legalizzazione. Se i legislatori non arrivassero sempre in ritardo, e non fossero cupamente sordi all’immaginazione per restare fedeli al loro buon senso e alla propria astrazione pragmatica, potrebbero risolvere tutto rubricando il reato dell’aborto in quello più vasto dell’eutanasia, privilegiandolo di una particolare serie di “attenuanti” di carattere appunto ecologico. Non per questo esso cesserebbe di essere formalmente un reato e di apparire tale alla coscienza. Ed è questo il principio che i miei amici Radicali dovrebbero difendere, anziché buttarsi (con onestà donchisciotetsca) in un pasticcio, estremamente sensato, ma alquanto pietistico, di ragazze madri e di femministe, angosciate in realtà da “altro” (e di più grave e serio). Qual è il quadro, in realtà, in cui la nuova figura del reato di eutanasia dovrebbe iscriversi?
Eccolo: un tempo la coppia era benedetta, oggi è maledetta. La convenzione e i giornalisti imbecilli continuano a intenerirsi sulla “coppietta” (in tal modo, abominevolmente, la chiamano), non accorgendosi che si tratta di un piccolo patto criminale. E così i matrimoni: un tempo essi erano feste, e la stessa loro istituzionalità – così stupida e sinistra – era meno forte del fatto che la istituiva, un fatto, appunto, felice, festoso. Ora invece i matrimoni sembrano tutti dei grigi e affettati riti funebri. La ragione di queste cose terribili che dico è chiara: un tempo la “specie” doveva lottare per sopravvivere, quindi le nascite “dovevano” superare le morti. Quindi, ogni figlio che un tempo nasceva, essendo garanzia di vita, era benedetto: ogni figlio che nasce oggi, è un contributo all’autodistruzione dell’umanità, e quindi è maledetto.
Siamo così giunti al paradosso che ciò che si diceva contro natura è naturale, e ciò che si diceva contro natura è naturale. Ricordo che De Marisco (collaboratore del codice Rocco) in una brillante arringa in difesa di un mio film, ha dato del “porco” a Braibanti, dichiarando inammissibile il rapporto omosessuale in quanto inutile alla sopravvivenza della specie: ora, egli, per essere coerente, dovrebbe, in realtà, affermare il contrario: sarebbe il rapporto eterosessuale a configurarsi come un pericolo per la specie, mentre quello omosessuale ne rappresenta una sicurezza.
In conclusione: prima dell’universo del parto e dell’aborto c’è l’universo del coito: ed è l’universo del coito a formare e condizionare l’universo del coito e dell’aborto. Chi si occupa, politicamente, dell’universo del parto e dell’aborto non può considerare come ontologico l’universo del coito – e non metterlo dunque in discussione – se non a patto di essere qulunquistico e meschinamente realistico. Ho già abbozzato come si configura, oggi, in Italia, l’universo del coito, ma voglio, per concludere, riassumerlo.
Tale universo include una maggioranza totalmente passiva e nel tempo stesso violenta, che considera intoccabili tutte le sue istituzioni, scritte e non scritte. Il suo fondo è tuttora clerico-fascista con tutti gli annessi luoghi comuni. L’idea dell’assoluto privilegio della normalità è tanto naturale quanto volgare e addirittura criminale. Tutto vi è precostituito e conformistico, e si configura come un “diritto” (compresa la tragicità e il mistero impliciti nell’atto sessuale) viene assunto conformisticamente. Per inerzia, la guida di tutta questa violenza maggioritaria è ancora la Chiesa cattolica. Anche nelle sue punte progressiste e avanzate (si legga il capitoletto, atroce, a pag. 323 de La Chiesa e la sessualità del progressista e avanzato S. H. Pfurtner). Senonché... senonché nell’ultimo decennio è intervenuta la civiltà dei consumi, cioè un nuovo potere falsamente tollerante che ha rilanciato in scala enorme la coppia, privilegiandola di tutti i diritti del suo conformismo. A tale potere non interessa, però, una coppia creatrice di prole (proletaria), ma una coppia consumatrice (piccolo borghese): in pectore, esso ha già dunque l’idea della legalizzazione dell’aborto (come aveva già l’idea della ratificazione del divorzio).
Non mi risulta che gli abortisti, in relazione al problema dell’aborto, abbiano messo in discussione tutto questo. Mi risulta invece che essi, in relazione all’aborto, tacciano del coito, e ne accettino, dunque – per Realpolitik, ripeto, in un silenzio dunque diplomatico e dunque colpevole – la sua totale istituzionalità, irremovibile e “naturale”.
La mia opinione estremamente ragionevole invece è questa: anziché lottare contro la società che condanna l’aborto repressivamente, sul piano dell’aborto, bisogna lottare contro tale società sul piano della causa dell’aborto, cioè sul piano del coito. Si tratta – è chiaro – di due lotte “ritardate”: ma almeno quella “sul piano del coito” ha il merito, oltre che di una maggiore logicità e di un maggiore rigore, anche quello di un’infinitamente maggiore potenzialità di implicazioni.
C’è da lottare, prima di tutto contro la “falsa tolleranza” del nuovo potere totalitario dei consumi, distinguendosene con tutta l’indignazione del caso; e poi c’è da imporre alla retroguardia, ancora clerico-fascista, di tale potere, tutta una serie di liberalizzazioni “reali” riguardanti appunto il “coito” (e dunque i suoi effetti): anticoncezionali, pillole, tecniche amatorie diverse, una moderna moralità dell’onore sessuale ecc. ecc. Basterebbe che ciò fosse democraticamente diffuso dalla stampa e soprattutto dalla televisione, e il problema dell’aborto verrebbe in sostanza vanificato, pur restando, come deve essere, una colpa, e quindi un problema della coscienza. Tutto ciò è utopistico? È folle pensare che una “autorità” compaia al video reclamizzando “diverse” tecniche amatorie? Ebbene, non sono certo gli uomini con cui io qui polemizzo che devono spaventarsi di questa difficoltà. Per quanto io ne so, per essi ciò che conta è il rigore del principio democratico, non il dato di fatto (com’è invece brutalmente, per qualsiasi partito politico).
Infine: molti – privi della virile e razionale capacità di comprensione – accuseranno questo mio intervento di essere personale, particolare, minoritario. Ebbene?

Corriere della Sera, 19 gennaio 1975.



Risposta a Pasolini

di Giorgio Manganelli

Da qualche tempo mi accade di leggere le prose teoretiche di Pier Paolo Pasolini con una sorta di devozionale raccapriccio: non oserò dire che scrive male, tenuto conto anche della media nazionale, ma che scrive, all’incirca, come un sociologo che, dopo passionali e discontinui studi giuridici, abbia scoperto e incautamente amato una letteratura, degli autori non indiscriminatamente consigliabili, tanto per fare une sempio, Giovanni Papini, Luigi Russo e l’ultimo Pier Paolo Pasolini. Mi rendo conto di essere caduto in un errore di logica, ma di un genere così squisitamente pasoliniano, da non trovar cuore per emendarlo. Quello che si nota, in questi ultimi scritti, è una tale qualntità di superiorità morale nei confronti dell’universo, da essere difficilmente compatibile con una prosa comprensibile. Era già successo al tempo del divorzio, succede di nuovo oggi sul tema dell’aborto. Il lettore ha l’impressione di tentare l’autostop durante gli ultimi tre giri sulla pista di Indianapolis: estremamente frustrante. Non sono assolutamente certo di aver capito tutto, ma quel che ho capito ha provocato in me una varietà di emozioni di cui ecrcherò di render conto, supponendole comuni ad altri mortali.
Il problema dell’aborto, ovviamente, pone in primo luogo il tema della mamma: Pasolini afferma di vivere “nei sogni e nel comportamento quotidiano” la sua vita prenatale, quella che egli chiama “la mia felice immersione nelle acque materne”. Sarà, ma la mia memoria maniotica è piuttosto corta. Che allora fossi felice, chissà mai, senza nemmeno un libro da leggere; in ogni caso, molti, ed io di questi, se invece di essere partoriti fossero stati abortiti, non se ne sarebbero avuti a male. Con lieve correzione dell’apotropaico detto popolare, “di mamma ce n’è una sola”, dal contesto di pasolini si può trarre lo slogan programmatico, “di mamme ce n’è un milardo solo”. Troppe, a mio modo di vedere. A questo punto, uno crede di avere acchiappato un bandolo e gli corre dietro: facciamo la conta delle mamme, facciamo delle proposte, tutto potrebbe rientrare nella difesa del paesaggio. Ci arriveremo, all’ecologia, ma più tardi; intanto ci sono delle riflessioni erratiche e concitate.
I Radicali hanno ceduto al fascino cinico della realpolitik; la maggioranza ha sempre torto, i “principi reali” – non so cosa siano, potrebbe essere un bon mot antimonarchico – non coincidono con i diritti della maggioranza. Ottimamente: se le cose stanno così, siamo perfettamente d’accordo. La maggioranza è conformista, dunque “brutalmente repressiva”: c’è perfino l’ombra di un sillogismo. Niente da dire.

Ora qualcuno potrebbe mettersi in testa che costringere una donna, che già deve varcare la soglia infera del trauma dell’aborto, a comportarsi come un animale braccato, a rischiare la vita, e infine ad essere dichiarata “delinquente” a nome del popolo italiano sia un comportamento abbastanza repressivo. Macché: come saviamente argomenta il Pasolini, la “maggioranza” vuole l’aborto, perché la coppia eterosessuale ha scoperto il coito consumistico, lo vive come dovere sociale della propria figura di consumatore. È del tutto evidente che Pasolini considera l’aborto come un’attività psicologicamente distensiva, una faccenda da carosello.
Essendo stati esentati dall’arbitrio della natura da codeste scelte, una tal quale prudenza non sarebbe di troppo. Diciamo, di indiretta scienza, che l’aborto non ha mai fatto ridere nessuno; alcuni anni fa, mi accadde di assistere ad un suicidio nell’Aniene di uan domestica: incinta; quando ero insegnante, una mia allieva si gettò da un quarto piano: incinta; chissà quale illusione le aveva persuase di essere oggetto di una “brutale repressione”; forse una cultura che tratta da “puttana” la ragazza madre, che le porta via i figli per infilarli in quelle case di riposo per angeli che sono i nostri brefotrofi, che garantisce una vita di disprezzo, di frustrazione, di irrisione, non ha tutte le carte in regola per discutere della sacra vita.

Ma stiamo sul terra terra: tutta questa campagna contro l’aborto è nata, se non sbaglio, da un’iniziativa dell’onorevole Pisanò, MSI: a me basta così, non occore altro; ma se vogliamo c’è dell’altro; tutto comincia a Firenze, negli uffici di quella procura che aveva dichiarato non punibile il massacro di un anarchico figlio di N.N., un tale la cui madre non aveva avuto la saggezza di abortire, ma aveva pensato che “la vita è sacra”. Sembrerebbe chiaro, no? Macché: con uno di quei glissando logici che a me danno il capogiro, Pasolini, mentre saccheggia mamme e maggioranze per contrastare l’aborto, definisce codesta opposizione “vecchia convenzione clerico fascista”: e se la prende con Fanfani che farebbe non so che che giochi – tanto lui li fa sempre – “in barba al Vaticano”.
Si ha l’impressione che di Pasolini ce ne siano troppi, è da tutte le parti. A questo punto, Pasolini scopre il “coito politico”: pensando e ripensando, di “coiti politici” ne ho trovati sicuramente due; quello con le prostitute, e quello con la propria moglie in quanto moglie, non in quanto la propria donna, “lei”; questi due coiti sono le colonne della nostra società. Tecnicamente, oserei affermare che sono gli unici coiti esistenti; tutti gli altri, senza distinzione di fecondi o infecondi, rientrano nell’assai più vasta e tragica categoria dei rapporti umani, quei rapporti che sono sempre frammentari, isolati, “repressi” dai fruitori dei coiti, condannati sempre a passare per misteriosi contatti e lacunosi dialoghi e impervi silenzi. Oggi il coito è “diverso”, scrive Pasolini, perché “il contesto politico di oggi è quello della tolleranza”.
Questo si chiama massificare, altro che romanzi, neanche la statistica riesce ad essere così vilipendiosamente elementare. Ma i giochi non sono finiti: Pasolini recupera una proposta di compromesso, suggerendo di includere l’aborto nel reato di eutanasia, “privilegiandolo di uan serie di attenuanti di carattere ecologico”; infatti, il reato di aborto potrebbe essere visto come un compenso al reato – “piccolo patto criminale” – consumato dalla coppia che, unendosi, rischia di produrre altri bambini che, inevitabilmente, contribuirebbero alla fine dell’umanità per pletora planetaria. Questo non è n glissando, è uno slalom. A questo punto, viene una gran nostalgia di Voltaire, di Swift, di Bertrand Russell, magari della logica di Aristotele, aio e pedante.
Vorrei concludere questa giostra logica con due annotazioni. Suppongo che per Pasolini l’esito del referendum sul divorzio sia una prova che la maggioranza sia – non m’importa ora quello che Pasolini pensa che sia; mi chiedo com’era fatta quella maggioranza: come mai la maggioranza “silenziosa” ha votato “no”? Un’ipotesi che una parte di questa maggioranza abbia avuto vergogna dei suoi compagni “clerico fascisti” e anche della propaganda per l’abrogazione; così una minoranza staccò una parte della maggioranza dal resto schiettamente fascista, il vero cuore della maggioranza silenziosa. Prova ne sia che oggi l’Italia, dopo aver votato “no”, continua a vivere il mondo del “sì”. Infine, a furia di dribbling, ho l’impressione che Pasolini abbia ingannato se stesso: intervento “minoritario”, il suo? Non direi.

Corriere della Sera, 22 gennaio 1975.

lunedì 17 marzo 2008

ISLANDA SALATA

La ruga d'acqua incisa nel tuo bosco
risale la cima mentre la tua mano,
distrattamente,
conta i passi avanti e le pietre rotonde
sul cammino:
ciò che l'occhio non vede sta sopra di noi,
avvinghiati, muti, amanti.

Quarti di luce spezzata,
intorno,
pupilla cerula che cede alla ritmica
tua presenza.

Ah! Fortezza di chi muove le dita
in questo solco di fuoco:

Tiepida, terapeutica Islanda
salata che sa di limone.

Maria Dindaco

EX FALSO QUODLIBET

Un'osservazione non polemica, ma che propongo per amor di precisione logica. E che vale per coloro che proclamano l'equivalenza di capitalismo e fondamentalismo terrorista. Ebbene, sovrapporre il sistema capitalistico - che necessita indubbiamente oggi di correttivi e riforme - all'ideologismo religioso di matrice integralista significa istituire un'identità tra enti per natura dissimili, rendendo meri indifferenti aggressione e reazione, diffusione economica e pura volontà di dominio, necessità politica ed imperialismo. In una formula, si confonde la molteplicità delle differenze con l'unità di ciò che è identico, come se capitalismo e rapina violenta, realismo politico e terrorismo islamico rappresentassero il recto e il verso di una stessa medaglia. Civettando con termini della logica, si può parlare di "incoerenza proposizionale". Che "due (duplicità e differenza) è uguale a uno (unicità e identità)" è esempio di proposizione autocontraddittoria, a partire dalla quale diviene lecito istituire qualunque paradosso. Ad esempio, è certo che io sono io ed il Papa è il Papa. Quindi io e il Papa siamo due. Ma due è uguale a uno. Perciò io e il Papa siamo uno. Dunque il capitalismo delle liberal-democrazie è pari al terrorismo.
Ed io sono il Papa.

MaxKlingerBoeri