giovedì 8 maggio 2008

VIAGGIO NELLA POLITICA CON FANTASIA

di Giorgio Manganelli

Davanti al palazzo dei congressi fischiano e tumultuano innocui ragazzoni che vogliono un po’ d’attenzione dei delegati; grandi cartelli gridano l’affanno di una cooperativa Auspicio, e i giovanotti cercano di riassumere una intricata storia di infelicità edilizie. “Delegato all’assemblea DC, non gettarmi via: leggimi e cerca di capire!”.
Il picchetto di protesta ha un che di folkloristico, di popolare, e dà l’impressione che sia uno strumento involontario della redenzione della DC come partito “popolare”. Sanno di “natale dei poveri”, mandorlato e mostarda.
I democristiani mi fanno entrare nel palazzo – li guardo con curiosità, non ne avevo mai visti tanti - con un garbo mite ed ingenuo, un tratto assai alla mano, più naturale che volutamente cortese.
La sala enorme è semivuota, Gui ha finito di parlare da poco, e le sedie appaiono assolutamente sfinite; una poltroncina singhiozza in silenzio, consolata da tenere e pensose donne delle pulizie.
Tolgono le carte, lavano per terra, e la sala non proprio sorride ma un poco si racconsola. Sul banco dei potenti si allineano i birilli verdastri delle acque minerali – “non gasate, prego” – a scandire gli “spazi deputati” a coloro che già le sedie si dispongono ad attendere. Un poco alla volta, alcuni entrano, crecano la sedia con la quale hanno stabilito una sorta di complicità. Li guardo con interesse, quegli esseri calmi, un poco umili che credono alla fine del mondo, e insieme vogliono discutere sul modo assennato e onesto per maneggiare il mondo nelle more della sua scomparsa. Può un’anima immortale essere competente in caduchi trionfi ed effimere letizie?
Davanti a coloro che, via via più numerosi, entrano nella sala sta la grande scritta: “Per la società nuova un grande partito di popolo”. Stilisticamente e folosoficamente non mi sembra gran che, ma forse trascuro l’intima mozione degli affetti. D’altra parte nel “documento di base” avevo letto che qualcuno vuol costruire una società “a misura d’uomo” e ne avevo tratto una saggia tristezza. Guardo i vestiti dei delegati sempre più numerosi; una dignitosa sciatteria da madri di famiglia, scattanti completi di giovani praticanti di studi legali, ansiosi di sposarsi; uomini di mezza età, con aria che non so perché direi padana, domestica, ragionevolmente prolifica. Forse il tratto, l’aroma della famiglia è peculiare di questo convegno, una solidarietà parentale, più che strettamente ideologica. Ammiro qualche barbetta arguta, da scapolo che fa piangere la fidanzata.
Arrivano i primi importanti, in testa Taviani. Comincia una musica classica, o è Beethoven o è Wagner, o tutt’e due con un Verdi giovane. Niente inni di partito. Si annunciano le regole per gli interventi: quindici minuti, estensibili a venti. Un macchinoso sistema di luci avvertirà il parlante dell’abisso imminente. Quattro luci, poi via i microfoni. Sono dei duri.
Arriva Andreotti, la mano sinistra in tasca, un po’ alla Napoleone. Andreotti non sale sul palco, si siede in platea, chiacchiera con Forlani. Intanto cominciano gli interventi. Il primo è irrequieto, nervoso, aiutato da microfoni che fanno pasta delle sue indignazioni. Il suo narcisismo non è incoraggiato. I Grandi chiacchierano, o meditano.
Altri entrano: Evangelisti, passo lento e duro, Bassetti, elegante, un concettoso (fisicamente) Ardigò. Ma io sono dominato da una smania oscura, malsana di vedere Piccoli, la pietra filosofale della DC; macché, lui non viene. Il secondo intervento pare garbato e liscio, ma eccoti “un’ampia convergenza di opinioni”, “inerisce”, “nella misura in cui”.
Vedo una poltrona che si percuote lo schienale con i braccioli: pura disperazione. Poi una voce femminile, acre e minatoria, domina la sala distratta. Non mi stupirei che parlasse della fine del mondo. Sembra informata. Meglio uscire.

Corriere della Sera, 26 novembre 1981.

Nessun commento: